Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia del Lago Vadimone

309 a.C.

Il console

Quinto Fabio Rulliano

Uomo politico e generale romano dell'età delle guerre sannitiche. Nel 331 a. C. la tradizione riferisce che fu edile curule. Quel che però viene narrato intorno alla parte che egli ebbe durante la sua edilità nella scoperta di un grande complotto di matrone avvelenatrici sembra poco degno di fede e ricalcato sul più tardo processo per i Baccanali. Nel 325 fu magister equitum del dittatore Lucio Papirio Cursore. La tradizione narra che in assenza del dittatore e contro i suoi ordini egli attaccò battaglia coi Sanniti vincendoli presso la ignota Imbrinio; perciò il dittatore avrebbe voluto condannarlo a morte e solo con difficoltà s'indusse e lasciargli la vita per le preghiere del senato e del popolo. Tutto questo racconto è estremamente sospetto e foggiato in gran parte sulla storia dei dissensi tra Q. Fabio Cunctator e Minucio nel 217. Forse può mantenersi, attribuendola a buona tradizione famigliare, la notizia della vittoria a Imbrinio. Nel 322 F. fu console per la prima volta. Di questo suo consolato sappiamo poco. I Fasti Trionfali registrano una sua vittoria de Samnitibus et Apuleis. Nominato dittatore nel 315 in un momento di estremo pericolo, quando i Sanniti, invasa improvvisamente la Campania, mostrarono di voler marciare su Roma, venne a battaglia con essi al passo di Lautule presso Terracina e riportò una grave sconfitta nella quale perì il magister equitum Quinto Aulio Cerretano. La sconfitta sembra per altro frenasse l'impeto offensivo dei Sanniti che non pare procedessero oltre Terracina. Dopo una seconda dittatura del 313, che è forse invenzione, Fabio rivestì il secondo consolato nel 310. In quest'anno mentre gli Etruschi assediavano la colonia latina di Sutri, Fabio con audace diversione, oltrepassata la Selva Ciminia, penetrò nel cuore dell'Etruria e, sconfitti gli Etruschi presso Perugia, concluse una pace di 30 anni con Perugia, Cortona e Arezzo e costrinse così gli Etruschi ad abbandonare l'assedio di Sutri.

Questi fatti sono riferiti da Livio con non pochi abbellimenti e amplificazioni. Ma data la concordia sostanziale delle due nostre fonti principali, Livio e Diodoro, fra loro indipendenti, e la conferma dei Fasti Trionfali che registrano all'anno seguente il trionfo di Fabio come proconsole de Etrusceis, sembra ipercritica il dubitarne e considerare la campagna etrusca di Fabio del 310 come reduplicazione di quella del 308, ed entrambe ripetizioni di quella del 295. Sembra anzi naturale che alla sottomissione dell'Etruria si giungesse per gradi, come appunto la tradizione riferisce; e pare assai più verosimile che i fantastici racconti sul passaggio della Selva Ciminia abbiano avuto origine a proposito di fatti della seconda guerra sannitica, quando davvero il passaggio della Selva Ciminia poté essere un isolato e memorando atto di audacia, che non a proposito di vicende della terza guerra sannitica quando le esperienze di guerra dei Romani erano senza paragone maggiori. Fabio fu console di nuovo nel 308; questa volta insieme con quel Publio Decio Mure che gli fu poi collega nella censura e in altri due consolati. Anche per questo anno ci vengono riferite imprese di Fabio nell'Etruria, ma il racconto non appare qui molto fededegno e sembra ripetere in parte le sue gesta del 310, in parte quelle del 295. Certo è che egli non ebbe il trionfo; pare difficile negare che combatté invece nel Sannio e nella Campania, dove indusse Nuceria a entrare in lega con Roma. Una vittoria sui Sanniti che egli avrebbe conseguito presso Allife come proconsole l'anno seguente 307 è probabilmente invenzione, mancandone traccia in Diodoro e nei Fasti trionfali. Nel 304 Fabio fu censore insieme con Decio Mure, e gli viene ascritto un importantissimo provvedimento che avrebbe limitato la riforma con cui Appio Claudio Cieco aveva iscritto in tutte le tribù quei cittadini che erano privi di proprietà fondiaria. Secondo Livio (IX, 46,14) simul concordiae causa, simul ne humiliorum in manu comitia essent, omnem foremem turbam in quattuor tnbus coniecit, urbanasque eas appellavit. Del significato di questo provvedimento e della sua realtà storica si discute: sembra però affatto arbitrario negar fede alla tradizione Solo punto discutibile è se le tribù urbane siano state istituite allora, ovvero se Fabio abbia soltanto iscritto nelle già esistenti tribù urbane quelli che non possedevano terreno nei territorî delle tribù rustiche. Comunque, il provvedimento sembra mirasse a riconoscere bensì l'appartenenza alle tribù di quanti avevano solo proprietà mobile, ma a limitare l'influenza che essi avevano nei comizi. Fabio ebbe una parte eminente nella terza guerra sannitica. Console per la quarta volta nel 295, combatté nell'Umbria riportando presso Sentino una decisiva vittoria sopra i Sanniti, gli Etruschi e i Galli collegati. In questa battaglia, che fu decisiva per l'unificazione dell'Italia peninsulare nell'antichità, morì combattendo il collega di Fabio, il console Decio. Il racconto della battaglia è stato abbellito senza dubbio dalla leggenda, ma è certo fallace l'ipercritica di quei moderni che dubitano della morte di Decio nella battaglia e persino della partecipazione a essa dei Sanniti, sostituendovi arbitrariamente i Sabini: smentiti dai Fasti trionfali, certamente fededegni per questo periodo, i quali registrano il trionfo di Fabio de Samnitibus et Etrusceis Gallies. Dopo questa vittoria, nel 292 essendo console Quinto Fabio Gurgite suo figlio, Fabio, dopo una prima sconfitta che il figlio subì dai Sanniti, avrebbe ottenuto che non lo si allontanasse dal teatro della guerra e, raggiuntolo, gli avrebbe coi suoi consigli come legato procacciato una gloriosa rivincita. Tutto questo racconto è di valore estremamente incerto. Più degna di fede pare la notizia che Fabio fu princeps senatus, il che porterebbe a ritenere che vivesse ancora dopo il 280, perché in quell'anno era ancor vivo Appio Claudio Cieco che sembra lo abbia preceduto in tale dignità. La tradizione, assai rimaneggiata sotto l'influsso delle vicende della seconda punica, degli anni successivi, non permette di farci un'idea esatta della personalità di Fabio Ma i suoi tre trionfi, i suoi cinque consolati, il passaggio della Selva Ciminia, le vittorie di Perugia e di Sentino, mostrano che fu uno dei più eminenti uomini di guerra dell'età in cui Roma unificò l'Italia peninsulare e uno di quelli che si resero più benemeriti di tale unificazione. Caratteristico di Fabio e tale da accomunarlo coi maggiori uomini di guerra di tutti i tempi è il fatto che una sconfitta grave come quella di Lautule non bastò a togliergli la fiducia dei suoi concittadini. Anche caratteristica è la sua stretta amicizia col plebeo Decio Mure. Nella sua censura egli sembra essersi tenuto lontano non meno dal rigido esclusivismo patrizio che da ogni tendenza demagogica.

La genesi

La notizia che Quinto Fabio si era addentrato nella selva Ciminia, così come aveva tenuto Roma in apprensione, allo stesso modo era stata motivo di tripudio per i Sanniti, per i quali era come se l'esercito romano, tagliato fuori dalla patria, si trovasse in stato d'assedio: per i Romani si profilava una disfatta pari a quella delle Forche Caudine. Quella gente, perennemente avida di nuove conquiste, era stata spinta dalla temerarietà di sempre in quelle regioni inospitali, dove adesso era circondata dall'impraticabilità dei luoghi più che dalle armi nemiche. Ma la gioia si mescolava già con una certa quale invidia, perché la sorte aveva trasferito dai Sanniti agli Etruschi l'onore della guerra contro Roma. Per questo, dopo aver raccolto uomini e armi, si misero in movimento per schiacciare il console Gaio Marcio, e se quest'ultimo non avesse accettato di dare battaglia, avevano intenzione di trasferirsi immediatamente in Etruria passando attraverso i territori dei Marsi e dei Sabini. Il console li andò ad affrontare, e lo scontro dall'esito incerto che ne seguì fu durissimo. Benché entrambe le parti avessero avuto perdite ugualmente gravi, tuttavia la voce comune attribuì ai Romani la sconfitta, perché avevano perso degli uomini di rango equestre, alcuni tribuni militari, un luogotenente e - ciò che aveva suscitato maggiore scalpore - era rimasto ferito addirittura il console. Poiché le voci avevano ingigantito la sconfitta, come sempre succede, i senatori vennero presi dal panico al punto da voler nominare un dittatore, e nessuno aveva dubbi sul fatto che la scelta sarebbe caduta su Papirio Cursore, considerato il miglior generale del suo tempo. Però non si era sicuri di poter fare arrivare la notizia nel Sannio, dato che tutta la regione pullulava di nemici, né si era al corrente se il console Marcio fosse ancora vivo. L'altro console, poi, era un nemico personale di Papirio. Per evitare che questo attrito andasse a discapito degli interessi dello Stato, il senato decise di mandare a Fabio una delegazione composta di ex consoli, i quali, avvalendosi del proprio prestigio personale, oltre che dell'autorità conferita loro dallo Stato, lo convincessero a dimenticare la rivalità di un tempo in nome del bene della patria. Quando gli ambasciatori arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero comunicato la decisione del senato, descrivendola con parole all'altezza dell'incarico ricevuto, il console abbassò gli occhi a terra e si allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che decisione avrebbe potuto prendere. Poi, nel silenzio della notte (come tradizione vuole), nominò dittatore Lucio Papirio. Quando gli inviati lo ringraziarono per aver piegato al meglio la propria disposizione d'animo, Fabio rimase ostinatamente in silenzio, e senza fornire risposta o commenti al suo gesto, licenziò gli inviati, perché fosse chiaro che grande dolore il suo animo stesse soffocando. Papirio scelse come maestro di cavalleria Gaio Giunio Bubulco. Mentre era impegnato a presentare ai comizi curiati la legge che gli conferiva l'autorità, venne costretto a rimandare il rituale da un presagio di cattivo augurio. La votazione, infatti, era iniziata dalla curia Faucia, celebre per due disastri, e cioè la presa di Roma e la pace di Caudio: ora, in entrambi gli anni in cui quei fatti si erano verificati, la sorte aveva affidato alla stessa curia il compito di avviare la votazione. Licinio Macro aggiunge che quella curia era di cattivo augurio anche per una terza disfatta, ovvero quella subita nei pressi del Cremera.

Il giorno successivo, rinnovati gli auspici, il dittatore fece approvare la legge. Partito da Roma con le legioni appena arruolate sull'onda del panico generato dalla notizia che l'esercito aveva superato la selva Ciminia, giunse nei pressi di Longula. Ricevute dal console Marcio le legioni già in servizio, schierò i suoi in ordine di battaglia. E i nemici non parvero riluttanti all'idea di combattere. Quando le due parti erano già schierate e con le armi in pugno, senza però che nessuna delle due volesse iniziare il combattimento, vennero sorprese dal calar della notte. Rimasti inattivi per qualche tempo da quel momento in poi, pur non mancando di fiducia nei propri mezzi né sottovalutando il nemico, i due contendenti collocarono i rispettivi accampamenti fissi a breve distanza l'uno dall'altro. Anche contro gli Umbri i Romani si misurarono in campo aperto: i nemici furono messi in fuga, subendo però poche perdite, perché non resistettero a lungo allo scontro, nel quale si erano lanciati con estremo accanimento.

La battaglia

Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in passato. La battaglia venne combattuta con un furore tale, che nessuno dei due contendenti arrivò a scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato con le spade divenne via via sempre più acre, mantenendosi a lungo nell'incertezza, al punto che i Romani non avevano l'impressione di combattere contro gli Etruschi già sconfitti tante altre volte, ma contro qualche popolo nuovo. Nessuna delle due parti accennava alla fuga: gli uomini della prima linea crollarono e, per evitare che i reparti restassero privi di copertura, la seconda fila rimpiazzò la prima. Poi vennero chiamati allo scontro anche gli ultimi riservisti. E la situazione arrivò a essere talmente critica, che i cavalieri romani, scendendo da cavallo, raggiunsero le prime file di fanti avanzando tra le armi e i corpi dei caduti. Entrati in campo, come un esercito fresco, in mezzo a uomini stanchi, gettarono lo scompiglio tra le linee etrusche. Seguendo poi il loro slancio, il resto delle truppe, pur allo stremo delle forze, riuscì finalmente a prevalere sullo schieramento nemico. Allora la tenacia degli Etruschi cominciò a cedere e alcuni manipoli presero a indietreggiare, dandosi inequivocabilmente alla fuga non appena ebbero voltato le spalle. Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo.

Le conseguenze

Poco tempo dopo i Romani corsero un pericolo analogo, riportando però un successo altrettanto netto contro i Sanniti i quali, oltre agli altri preparativi militari, avevano fatto sì che le loro armate fossero più splendenti grazie a una nuova e brillante armatura.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX